sabato 17 giugno 2023

Nuovi studi sul mare di Bolca, nel Cretacico le giornate duravano mezz'ora in meno, i capelli lunghi sono un adattamento a climi caldi, gli ibridi Sapiens-Neanderthal si possono riconoscere da alcune morfologie


I capelli lunghi? Un adattamento ad ambienti assolati e caldi (ancora meglio se sono ricci)

Se portate i capelli lunghi, come me, e la gente continua a dirvi "perché non ti tagli i capelli", voi potete citare con tutta serenità questo studio.

I capelli sono una caratteristica unica del nostro genere, assente in tantissimi altri primati e svolgono molteplici funzioni: proteggono dal sole, trattengono il calore e come una "coda del pavone" possono fungere da 'richiamo sessuale' (qui entriamo nel mondo della Selezione Sessuale, che è meglio mettere da parte).

Una ricerca recente, che potete trovare nei commenti, afferma che una crespa/riccia e folta chioma parrebbe essere un adattamento degli ominini, in quanto svolgono una funzione termoregolativa in ambienti caldi e assolati.

In mezzo a svariati ed indipendenti cambiamenti che hanno caratterizzato la storia del nostro genere, e degli ominini in generale, l'evoluzione del cuoio capelluto parrebbe essere legata alla postura bipede e ad un corpo relativamente glabro (comunque pieno di peli, ma non più così folti).

 Infatti, sono stati selezionati individui che possedevano dei veri e propri capelli in quanto questa "particolare peluria", assieme al cuoio capelluto, ridurrebbero (e riducono) al minimo l'aumento del calore dovuto alla radiazione solare. Insomma, la postura bipede ha messo in evidenza e "sotto al sole" i grandi crani tipici del nostro genere, e gli individui che presentavano una capigliatura folta e riccia (è un carattere tipico delle popolazioni africane di  𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨) avevano buonissime possibilità di sopravvivenza in certi contesti, come quelli africani (da cui si è originato, appunto, il nostro genere).

𝘼𝙥𝙥𝙧𝙤𝙛𝙤𝙣𝙙𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤

Per lo studio, sono stati utilizzati manichini termici e parrucche di capelli che sono stati sottoposti a diverse velocità del vento, e a diverse temperature (e umidità) per capire se l'ipotesi della termoregolazione fosse plausibile o meno. 

In effetti, i risultati sono stati positivi in quanto i capelli folti forniscono una protezione al cuoio capelluto stesso, riducono l'aumento del calore dovuto alle radiazioni solari e quelli con una morfologia 'arricciata' forniscono una protezione più efficace per il cuoio capelluto contro le radiazioni solari.

I capelli sono estremamente variabili all'interno della popolazione dell'𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨, e fino ad ora la varietà morfologica non è mai stata studiata dal punto di vista evoluzionistico.

Il massimo potenziale di perdita di calore per evaporazione dal cuoio capelluto è ridotto dalla presenza di capelli, ma la quantità di sudore richiesta sul cuoio capelluto per bilanciare il calore solare in entrata (cioè guadagno di calore pari a zero) è ridotta in presenza di capelli. 
In particolare, i capelli più arricciati offrono una maggiore protezione contro l'aumento di calore dovuto alla radiazione solare, ma al momento non si sa bene perché (e forse lo sapremo in futuro).

Come detto prima, le pressioni selettive evolutive hanno modellato la nostra specie. Il bipedismo, l'encefalizzazione e la perdita di peli folti sul corpo sono i tratti di primo interesse nello studio dell'evoluzione degli ominini e e del nostro genere.

Con la comparsa (circa 2 milioni di anni fa) di una locomozione bipede obbligata, assieme (e in modo indipendente) allo sviluppo di un grosso cranio (legato ad una riduzione di certe componenti craniche e muscolari), ha significato per il nostro lignaggio un un maggiore costo per quanto riguarda il 'surriscaldamento' del nostro corpo, dovuto alla produzione metabolica di calore associata alla locomozione.

In pratica, i nostri antenati erano una sorta di stufetta ambulante con un corpo pronto a surriscaldarsi subito dopo camminata, e a quel tempo come ben sapete hanno incominciato a colonizzare un po' tutte le terre possibili. Quindi, la sudorazione si è rivelata sempre una buonissima soluzione per abbassare la temperatura corporea, in quanto i peli non più folti (organo vestigiale) non svolgono più un ruolo termoregolativo. È un sistema altamente efficace che non è privo di costi, in quanto aumenta la necessità di reintegrazione di liquidi, e quindi se si perde molta acqua si rischia la disidratazione.

Quindi, per un ominino con un grosso cranio (encefalizzato), che comporta comunque un costo in termini di calorie, avere una capigliatura folta (e riccia) significa avere un'arma in più per proteggersi dall'aumento del calore, senza rischiare un'immediata disidratazione.

Gli uomini calvi sudano "in testa" tre volte in più rispetto ad una persona con i capelli lunghi, ma c'è anche da dire che il tasso di sudorazione cambia in base alla lunghezza e alla morfologia del capello. Le persone con i capelli più corti (5 mm) perdono calore più velocemente rispetto a chi possiede una capigliatura lunga 100-130 mm.

 E i capelli arricciati, che sono comuni in molte popolazioni africane, parrebbero essere un fenotipo vantaggioso nel ridurre'aumento di calore dovuto alla luce solare, ma al momento non si sa perché.

Il modello osservato per quanto riguarda il guadagno di calore (decrescente) è questo:

Testa "nuda" - capelli lisci -capelli moderatamente ricci- capelli ricci.

                    Vi mostro i miei capelli

Immagine riassuntiva dello studio. Per la fonte, clicca qui)


Nel Cretacico le giornate duravano una mezz'oretta in meno, scorrevano più velocemente

Di recente è stata pubblicata una ricerca nella quale si spiega come, nel Proterozoico medio (non nel Farenozoico, scusate per l'errore), quindi ben prima della famosa 'esplosione del Cambriano' (540 milioni di anni fa circa), le giornate durassero solamente 19 ore. E per 1 miliardo di anni la durata delle giornate non è aumentata in modo significativo, per poi riprendere   ad aumentare dal Cambriano. Più o meno.

Ora, il campo fisico ed astronomico non sono proprio il mio campo, quindi ho evitato di scrivere potenziali sciocchezze, anche perché sono un po' arrugginito e l'unica cosa che so è che la Luna si allontana di quasi 4 cm all'anno, e quindi le forze in gioco tra i due corpi celesti "diminuiranno" ancora nel corso del tempo.

La cosa che riesco a fare è parlare di evoluzione e paleontologia, e proprio grazie ai fossili è possibile studiare il fenomeno appena citato. 

Sono state analizzate in questo studio(che trovate nei commenti) delle rudiste del Cretacico, in particolare la specie  𝙏𝙤𝙧𝙧𝙚𝙞𝙩𝙚𝙨 𝙨𝙖𝙣𝙘𝙝𝙚𝙯𝙞, rinvenuta in Oman. Questa particolare specie di bivalve viveva in acque tropicali e cresceva velocemente e, come ben sapete, sul guscio delle valve è possibile notare degli anelli di crescita o di accrescimento simili a quelli degli alberi, che si formano quando il guscio/esoscheletro si espande con la crescita.

Con la crescita, i bivalvi assorbono l'acqua e le sostanze chimiche presenti in essa, e di  conseguenza grazie a queste sostanze è possibile ricostruire la composizione delle acque, il clima e  quindi anche le variazioni e l'alternarsi dei giorni e delle stagioni.

Quello che si evince da questo studio è che il moto di rivoluzione è rimasto sostanzialmente costante nel corso dei  milioni di anni, ma le 372 stratificazioni giornaliere contate sui gusci, che corrispondono effettivamente a 372  giorni sulla Terra del Cretacico della specie, indicano che il moto di rotazione della Terra era più veloce, e di conseguenza le giornate erano più corte di circa mezz'ora rispetto ai giorni nostri.
Quindi, in un anno non avremmo avuto 365 giorni ma 372.

Inoltre, le stratificazioni delle valve mostrano una crescita rapida  giornaliera rispetto alla notte, quindi probabilmente erano in simbiosi con organismi fotosintetici, come accade per gli odierni polipi corallini.

Nell'immagine superiore potete notare gli "anelli di accrescimento" studiati, invece in quella inferiore la specie 𝙏𝙤𝙧𝙧𝙚𝙞𝙩𝙚𝙨 𝙨𝙖𝙣𝙘𝙝𝙚𝙯𝙞. Per la fonte, clicca qui




Dimmi com'è il tuo cranio, e ti dirò se sei un ibrido Sapiens-Neanderthal

Che la specie 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 si sia ibridata con altri gruppi e specie è innegabile, ed è proprio per questo che risulta essere complicata, per certi versi, da capire e da studiare l'evoluzione del nostro genere.

Prendiamo come esempio l'ibridazione tra la nostra specie e 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨. Con il termine ibridazione (sempre nel nostro caso) noi indichiamo, o meglio, intendiamo un accoppiamento avvenuto tra due gruppi che hanno generato prole fertile, in quanto conserviamo le loro tracce nel nostro genoma, e di conseguenza immaginiamo un accoppiamento continuo tra queste due specie nel Medio Oriente circa 100.000 anni fa.

È così? Non proprio.

Partiamo innanzitutto dal concetto di inbreeding, o inincrocio. Con questo termine noi indichiamo l'incrocio tra individui strettamente imparentati o consaguinei. Il DNA mitocondriale delle due specie ci indica che non c'è stato in pratica nessun incrocio, mentre il DNA nucleare si. Pertanto, considerando che il DNA mitocondriale viene trasmesso dalla sola madre ai figli (le figlie a loro volta lo possono trasmettere. Anche se esiste qualche rarissimo caso di trasmissione per via parentale), questo potrebbe farci capire che l'accoppiamento poteva avvenire prevalentemente tra maschi Neanderthal e donne Sapiens, forse anche tra i sessi opposti ma in percentuale minore. 

Quindi da qui capiamo il punto centrale del discorso: l'inbreeding era molto basso. Cioè, non c'era un continuo incrocio tra le due specie e viene stimato che in un arco temporale di 10.000 anni siano avvenuti appena 200-400 eventi di ibreeding (Fonte 2 e 3 che trovate nei commenti).

Probabilmente c'erano di mezzo barriere riproduttive molto forti, come la cultura e le condizioni ecologiche, che hanno permesso pochi fenomeni di ibridazione. C'è da aggiungere anche un altro fenomeno, quello dell'introgressione. Sostanzialmente i gruppi Neanderthal-Sapiens si accoppiavano, producevano prole ibrida (solo in rarissimi casi era fertile), che a loro volta si riaccoppiava con uno dei parentali (maggiormente con il Sapiens ), permettendo così alla nostra specie di "rubare" geni neanderthaliani (e anche Denisovani). Indicando che tra le popolazioni vi era, saltuariamente, solo un piccolo scambio genico e non continuo.

Parliamo solo di una piccola fetta di popolazione di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 uscita dall'Africa, e di una piccola fetta di neanderthaliana presenti in quel dato luogo. Pertanto, con popolazioni piccole, lo scambio genetico è stato anche molto limitato e con il tempo abbiamo assistito anche alla perdita di molti geni. Se ci fossero stati più inincroci, forse, gli europei e gli asiatici avrebbero avuto una percentuale maggiore di genoma neanderthaliano rispetto all'1-3% attuale.

Oltre alla genomica, anche la morfologia può aiutarci a capire se l'individuo fossile che stiamo studiando è un ibrido. Qesta nuova ricerca (fonte 1) indica come il cranio (ne parleremo più in basso nel dettaglio), in relazione anche ai dati genomici, possa essere un buon 'alleato' per capire se stiamo studiando un individuo ibrido.

Sono stati analizzati campioni di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 eurasiatico del  Pleistocene superiore, che è stato utilizzato come 'modello' per capire la storia dell'ibridazione della nostra specie. Questi campioni indicano che la mandibola, e la parte posteriore del cranio, possiedono forma e dimensini  intermedie tra 𝙃. 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 e 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 africano (il cranio di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 è globulare, mentre quello neanderthaliano presenta una convessità, una sorta di protuberanza conosciuta anche come "chignon").

La forma facciale e mandibolare sono comunque influenzate da risposte adattative e dalla selezione, ma i dati su altri mammiferi (e sui primati) suggeriscono che possano essere fattori importanti nel riconoscimento di individui ibridi, in quanto queste caratteristiche potrebbero 'conformarsi' alla popolazione con cui l'ibrido si reincrociava (i dati genetici ci indicano, al momento, che non vi sono stati incroci tra ibridi nel nostro lignaggio, ma solo con uno dei due parentali, maggiormente con 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨).

Infatti, la ricerca indica come 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 del Pleistocene superiore fosse più vicino alla forma di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 africano che a 𝙃. 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨, proprio per via del flusso genico asimmetrico che indicherebbe: 

- o una differenza nelle popolazioni parentali (maggiore quella del Sapiens);

- o maggiori fenomeni di introgressione, di reincrocio degli ibridi con il parentale Sapiens.

Ma come possiamo capire dalla morfologia, senza dati genetici, se si tratta di individui ibridi?

Sicuramente, si ha qualche segnale da parte della mandibola, come detto prima, ma i segnali fenotipici di ibridazione solo limitati alla dimensione complessiva della struttura, ed alla megadontia (denti più grandi rispetto ai parentali). I fossili indicano che il nostro apparato masticatorio era ben diverso da quello neanderthaliano: meno robusto e meno "potente" per quanto riguarda il morso e la masticazione.

 L'ibridazione indicherebbe che, geni neanderthaliani, influissero sullo sviluppo della struttura cranio-mandibolare, soprattutto per quanto riguarda la regione masticatoria e del neurocranio (come indicato all'inizio del discorso, con una forma cranica 'intermedia' tra le due specie). 

Naturalmente, bisogna un attimino fare attenzione allo stato ed alla completezza del cranio, ed agli eventi tafonomici che possono in qualche modo deformare il cranio, e fornire dati distorti sul 'segnale di mescolanza'.

      Fonte 1 (clicca qui), Fonte 2 (clicca qui),                Fonte 3 (clicca qui)



Nuovi studi sui pesci di Bolca

Bolca è una località veneta in provincia di Verona, una delle più ricche e famose a livello paleontologico, soprattutto perché il grado di preservazione dei reperti è elevato. Era sostanzialmente un habitat marino-costiero lagunare, antico 50-48 milioni di anni circa (Eocene) e, tra i vari fossili, si trovano sostanzialmente pesci, "rettili" ed anche qualche piuma d'uccello. Alcune volte è possibile trovare meduse o altri organismi che si possono preservare solo eccezionalmente essendo privi di 'parti dure'.

Questo tipo di preservazione si chiama Lagerstätte, e grazie a questo tipo di preservazione possiamo studiare resti anatomici che in genere andrebbero perduti, come per esempio la cartilagine, i tegumenti, anche interi organi. In questo caso, questo studio è estremamente interessante in quanto è stato studiato un pesce luna, appartenente alla specie 𝙈𝙚𝙣𝙚 𝙧𝙝𝙤𝙢𝙗𝙚𝙖, che risulta essere tra i meglio conservati.

Cosa ci dicono le analisi sul fossile?

Attraverso tecniche come la microscopia elettronica a scansione (SEM), si è riusciti a studiare la pigmentazione del reperto, e ciò permette non solo di capire alcuni aspetti anatomici del fossile, ma anche contesti biologici come l'alimentazione e la colorazione del tegumento. La colorazione esterna, infatti, fornisce molte informazioni, come per esempio quelle sull'alimentazione degli individui, sia nei pesci odierni che in quelli estinti. 

Sulla pelle di quest'animale, sono state trovate tre strisce longitudinali scure, che indicano la presenza di melanosomi. Questi erano presenti anche nella zona dell'occhio e nelle zone dell'addome, associabili probabilmente ai reni, cuore e fegato.

Grazie a ciò, è stato possibile fare alcune osservazioni paleobiologiche:

L'alternanza di bande scure e chiare, associabili a strie longitudinali, indicano una dieta piscivora, che risulta essere differente dagli individui moderni che generalmente si cibano di plancton e invertebrati. Infatti, cambiano le strisce sul corpo.

Fonte immagine e del testo nei commenti.

       Per la fonte, clicca qui


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