domenica 2 luglio 2023

anche altri animali potrebbero comunicare come noi? - una particolare estinzione che ha riguardato solo gli squali - Denti trituranti del Cretacico - Il Morbo di Dupuytren è un'eredità neanderthaliana - La masturbazione è antica almeno 40 milioni di anni - I primi cannibali del Cambriano -la nostra specie ha avuto origine da varie popolazioni

Anche altri mammiferi potrebbero parlare, o meglio comunicare come l'uomo?

Molti primati, tra cui 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨, 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 e scimpanzé (ma anche altri mammiferi come i topi), possiedono il gene Foxp2, meglio conosciuto come 'gene del linguaggio'. 

È localizzato sul cromosoma 7, ed è coinvolto nello sviluppo della parte del cervello che è predisposta alle facoltà linguistiche (il lobo frontale).

Allora ogni animale che possiede questo gene può parlare? La risposta è no, o meglio in linea teorica potrebbe un animale se avesse sviluppato casualmente delle caratteristiche morfologiche che permettano l'articolazione del linguaggio e lo sviluppo di determinate aree del cervello:

-Area di Broca, che permette l'articolazione ed il movimento di labbra, mandibola, lingua, laringe e corde vocali. Quindi, conferisce la capacità di riprodurre fonemi (quest'area esiste anche nelle scimmie antropomorfe);

-Area di Wernicke che identifica e codifica i suoni verbali.

L'uomo ha avuto la fortuna di avere più proteine codificate dal gene, che hanno portato ad una modificazione tale della bocca e della laringe da permettere l´articolazione di suoni complessi.

Nel corso dell'evoluzione, la mandibola umana rispetto agli altri primati è più mobile a seguito dell’alleggerimento osseo, appunto, di
mascella e mandibola.

Un elemento importante è l'osso Ioide che sostiene dall’alto la laringe (il condotto che permette il passaggio dell'aria), che a sua volta è collegato alla mandibola da tendini e muscoli. Queste connessioni sono importanti nell’elevazione della 
laringe durante la fonazione.

Anche 𝙃. 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 possedeva tali mutazioni, pertanto si può benissimo pensare che si esprimesse attraverso un linguaggio umano (oltre ad essere capace di pensare in modo astratto, ma questo è un altro discorso).

Le aree del cervello

Dov'è collocato il gene FoxP-2 sul cromosoma




Una grande estinzione di massa coinvolse solo squali
Da quando esistono gli organismi, esistono anche le estizioni di massa, cioè improvvise sparizioni di un gran numero di taxa come accadde tra il Permiano e il Triassico, o la più famosa tra il Cretacico e il Paleocene. Certe volte, però, le estinzioni possono riguardare gruppi specifici come accadde 19 milioni di anni fa nel Miocene: sparì più del 70% delle specie di squali presenti a quel tempo, con l'intera popolazione mondiale che diminuì di oltre il 90%.

Durante lo studio di sedimenti prelevati dal fondale dell'Oceano Pacifico, due ricercatrici dell'Università di Yale, autrici dello studio, hanno descritto e studiato i denti e dentelli dermici appartenenti agli squali, prelevati nei sedimenti.

I reperti vennero catalogati in 88 gruppi diversi, e ben presto le ricercatrici si accorsero che, tra il "passaggio" di alcuni strati datati 19 milioni di anni, il numero di gruppi si ridusse improvvisamente da 88 a 9. A subirne maggiormente le conseguenze furono le specie di mare aperto.

Per la percentuale di specie scomparse, questa particolare estinzione è decisamente paragonabile alle 5 grandi estinzioni di massa, ma la peculiarità di quella miocenica è che ha coinvolto solamente squali. Da qui nascono alcune perplessità:

-Non si sa ancora quale sia stata la causa e come mai siano stati colpiti maggiormente gli squali di mare aperto;

-La diversità che caratterizzava gli squali calò drasticamente 19 milioni di anni fa, con le specie moderne che incominciarono a diversificarsi soltanto tra i 2 e i 5 milioni di anni fa. Di conseguenza, se non ci fosse stata questa grande estinzione, a quest'ora avremmo un numero maggiore sia di specie che di squali in generale nei mari e negli oceani;

-L'uomo, per via della pesca, sta minacciando ancora di più queste "ultime" specie rimaste, infatti il numero degli squali dagli anni '70 è diminuito del 70% circa. Come se stessimo dando la batosta finale e, come ci insegna sia questo studio che la storia evolutiva degli squali, ci vorrà molto tempo affinché i mari tornino ad essere popolati da un numero maggiore di specie e di individui di squali.

Fonte studio: An early Miocene extinction in pelagic shark, Elizabeth C. Sibert, Leah D. Rubin. Science 04 Jun 2021




Denti...trituranti del Cretacico

Quelli che vedete in foto, sono dei denti di uno 
squalo durofago, appartenenti al genere 𝙋𝙩𝙮𝙘𝙝𝙤𝙙𝙪𝙨 che visse nel Cretacico superiore. Gli organismi cosiddetti durofagi sono quelli che sono i grado di nutrirsi di organismi "duri", o meglio di organismi dotati di un esoscheletro, come buona parte dei molluschi e dei granchi.

Gli animali durofagi possiedono degli adattamenti straordinari, come i loro denti del resto: i denti sono forti e smussati, e le mascelle e le mandibole sono così 'potenti'( merito anche dei grandi fasci muscolari) da permettere di triturare come un 'rullo compressore' le prede.

In questo caso, questo genere possedeva una serie di tanti denti piatti, fino a 550 denti, di cui 220 sulla mandibola e 260 sulla mascella. Secondo le stime dei paleontologi, si ritiene che la placca dentaria più grande misurasse 55 centimetri circa di lunghezza e 45 centimetri circa di larghezza. Le placche erano caratterizzate da file di denti giustapposti, non sovrapposti, e da file di denti embricati (sovrapposti/appoggiati tra di loro).

Questa caratteristica morfologica è molto simile allo schiacciamento dei "denti a piastre" tipico di alcune razzi e squali, tanto che questo genere può essere definito il precursore di questo adattamento (al momento, non sono stati rinvenuti altri squali o altri organismi del Cretacico aventi questa caratteristica). 

Non indica necessariamente una parentela con i pesci odierni dotati di questa caratteristica, ma indica di più una convergenza evolutiva (organismi che possiedono strutture morfo-anatomiche simili che svolgono ruoli simili, ma non imparentati tra di loro).
 
I vari studi indicano che, probabilmente, non era bentonico, e che viveva in aree di mare aperto, lontano dalla costa (organismo pelagico). Questo perché, lì si concentravano maggiormente le sue prede ideali come 𝘾𝙧𝙚𝙢𝙣𝙤𝙘𝙚𝙧𝙖𝙢𝙪𝙨 𝙨𝙥.

Altre informazioni utili per 'inquadrare' meglio questo genere:

-Si stima potessero raggiungere i 10 m di lunghezza. Non è poco!

-I fossili indicano un tasso di crescita lento. Potenzialmente, questi pesci potevano avere una vita molto lunga (anche se non si specifica negli studi quanto);

-Questo genere era praticamente diffuso ovunque (negli odierni stati di India, Spagna, Inghilterra, U.S.A., ecc), ed ogni specie possedeva una batteria diversa. 

Fonte 1 e 2

Ph: Mattia Paparo

Immagine artistica: Wikipedia

Collocazione: Museo Geológico del Seminario de Barcelona.


Il disturbo della mano conosciuto come “malattia vichinga” (o morbo di Dupuytren) è un’ulteriore eredità...neanderthaliana

Come ben sappiamo, quei rari e fortuiti accoppiamenti con 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨, ci hanno permesso, attraverso un fenomeno conosciuto come 'introgressione', di ereditare geni neanderthaliani.

Prima di continuare questo discorso, dobbiamo vedere come avvenne l’incorporazione di questi geni. Le specie 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 e 𝙃. 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨, come indicano i dati genetici, si sono sporadicamente accoppiate, questo perché potrebbero esserci state delle barriere riproduttive (come anche la distanza genetica tra le due popolazioni) che hanno limitato gli accoppiamenti. Quei pochi e rarissimi ibridi che nascevano, se fertili, si riproducevano con uno dei due parentali (non con il genitore, sia chiaro, ma con un altro individuo 'non ibrido' appartenente al lignaggio Sapiens o Neanderthal). Quindi, le popolazioni non si 'mischiavano' e non diventavano omogenee, ma un ibrido riaccoppiandosi con un parentale permetteva di "rubare" i geni dell'altra popolazione.

Bene, grazie a questo fenomeno è stato possibile ‘rubare’ alcuni geni neanderthaliani: alcuni di questi hanno svolto un ruolo fenomenale per la nostra sopravvivenza, infatti ci hanno permesso di sopravvivere al freddo o a certi virus; altri ci espongono maggiormente a certe malattie (alcune ereditate proprio dal Neanderthal) come Lupus, Diabete di tipo II e, a quanto pare, il morbo di Dupuytren. 

Questa malattia era molto comune nelle popolazioni di origine africana e in quelle nordeuropee, infatti il 30% dei norvegesi (secondo uno studio del 1999) che supera i 60 anni di età è affetto da questa patologia. Da qui deriva il nome di ‘malattia vichinga’.

Questa malattia colpisce le mani, e coloro che ne soffrono possiedono una mano caratterizzata da un progressivo ispessimento e retrazione dell'aponeurosi, la membrana che protegge il palmo della mano sotto la cute. In parole povere, abbiamo a che fare con questa patologia quando una o più dita della mano rimangono flesse, o piegate, in modo permanente. 
  
A quanto pare vi è una predisposizione genetica per via di quei (pochi) geni neanderthaliani che abbiamo ereditato da quei sporadici e fortuiti accoppiamenti. Sono stati presi in considerazione 7.871 casi (più centinaia di migliaia di controlli della Biobanca del Regno Unito e di altri centri di ricerca), e sono stati trovati 61 varianti significative dell’intero genoma associate alla malattia di Dupuytren.

Tre di queste varianti (o loci) ospitano alleli di origine neanderthaliana, ed il secondo fattore di rischio genetico più importante è situato sul cromosoma 7. Grazie ai dati sul mRNA dei muscoli (e di altri tessuti), il fattore di rischio genetico è associato a una variante di splicing del gene EPDR1. In parole povere, , l'influenza osservata degli antenati di Neandertal sulla malattia di Dupuytren è circa 20 volte maggiore del previsto, e in generale lo studio suggerisce che la mescolanza con questa specie ha un impatto sostanziale sulla prevalenza della malattia di Dupuytren in Europa.

Insomma, i geni neanderthaliani ci stupiscono sempre, sia in positivo che in negativo.

P.s. Una cosa che ho dimenticato di scrivere, anche se è sottointesa, è che questo studio mette in mostra come la distribuzione di geni neanderthaliana non sia del tutto casuale e che comunque rispetta, e rispecchia, certi processi biologico-evolutivi. Le popolazioni non africane (anche se molte popolazioni africane possiedono almeno lo 0,3% di DNA neanderthaliano per via di 'retromigrazioni') sono caratterizzate da una percentuale neanderthaliana che va dall'1 al 3% circa, e nessuno (o quasi) possiene gli stessi geni. Questo vale anche per i geni legati alla malattia, non tutti li possiedono e non tutti sono a rischio (e questo vale anche per altre malattie come Lupus o Diabete di tipo II). In Nord Europa questa malattia è diffusa, e questo fa pensare che i geni legati ad essa siano una sorta di caratteristica 'regionale', quindi l'antico ceppo Sapiens che migrò in queste terre venne caratterizzato, almeno per qualche tempo, da una sorta di isolamento tale da permettere, in un modo o nell'altro, l'aumento della frequenza di questa malattia (e dei geni neanderthaliani legati ad essa). Questo spiegherebbe come mail il 30% dei norvegesi, dopo i 60 anni, ha a che fare con questa malattia.

Fonte: Richard Ågren and others, Major Genetic Risk Factors for Dupuytren's Disease Are Inherited From Neandertals, Molecular Biology and Evolution, Volume 40, Issue 6, June 2023, msad130


La masturbazione nei primati è antica circa 40 milioni di anni 

Per quanto la sessualità e il sesso in generale siano ancora una sorta di tabù, sia dal punto di vista culturale che religioso, parliamo comunque di un fenomeno naturale che ci accompagna da sempre.

In questa recente ricerca (che trovate nei commenti), i ricercatori hanno retrodatato la comparsa della masturbazione a circa 40 milioni di anni fa. Insomma, prima della comparsa della nostra specie e di altri ominini antichi, come le australopitecine o l'antenato comune tra il nostro lignaggio e quello degli scimpanzé, questa pratica autoerotica già caratterizzava ogni forma di primate.

Qui, se Facebook non si offende, entriamo comunque nel campo evoluzionistico in quanto, come per qualsiasi carattere (a meno che non sia una macromutazione), questa pratica non è comparsa "dall'oggi al domani", ma è legata ad una serie di funzioni biologiche che si sono sviluppate nel corso del tempo.

La ricerca è nata grazie alla raccolta di centinaia di pubblicazioni scientifiche (e non solo!) ed hanno, sostanzialmente, elaborato una sorta di albero genealogico primatologico in base alla presenza della pratica della masturbazione, ed il risultato è che tutti i primati la praticano. Insomma, è un tratto che accomuna tutti i primati, compreso l'uomo.

Ma che funzione può svolgere una pratica del genere?

A parte far arrabbiare qualche estremista religioso, dal punto di vista evolutivo ci potrebbero essere alcune spiegazioni molto interessanti. Vediamo cosa suggeriscono i ricercatori:

-aumenta la possibilità di concepimento. Questo riguarda perlopiù i maschi 'non dominanti' che svolgevano (e svolgono) questa pratica per aumentare l'eccitazione sessuale prima dell'incontro con il partner femminile. Questo, dal punto di vista sessuale, permetterebbe di diminuire il tempo effettivo dell'accoppiamento anche e in previsione di uno "scontro" con i maschi alfa. Insomma "prima mi sbrigo e più possibilità ho di non essere beccato dal 'capo' e di procreare";

-permetterebbe di disfarsi dello sperma vecchio, facendo 'spazio' a quello più "fresco". In sostanza, con questa pratica ci si disinfetta di quello vecchio facendo spazio alle nuove riserve di sperma che risultano essere più veloci e pronti per l'accoppiamento;

-tiene pulito il tratto genitale e diminuisce la probabilità di trasmissione di infezioni sessuali. Sembra che l'aumento masturbazione, o meglio diffusione di questa pratica, sia andata di pari passo con la progressiva comparsa di malattie sessualmente trasmissibili. In questo modo si riduce l'infezione da parte dell'ospite.

Per quanto riguarda l'autoerotismo femminile, invece, si hanno meno informazioni anche per via della minore documentazione rispetto a quello maschile. Verranno svolti sicuramente studi più approfonditi, ma i ricercatori pensano che quello femminile possa aver garantito alle femmine una sorta di 'controllo' sul maschio decidendo di chi rimanere incinte. A livello biologico, questa pratica sembra rendere la parte interna della vagina 'meno acida', quindi un ambiente più ospitale per gli spermatozoi.

𝘼𝙥𝙥𝙧𝙤𝙛𝙤𝙣𝙙𝙞𝙢𝙚𝙣𝙩𝙤

Nella parte un po' più divulgativa, faccio riferimento solo alla pratica 'funzionale' dell'autoerotismo e dei benefici legati alla fitness, infatti esistono anche ipotesi 'non funzionali' che ipotizzano come questa pratica possa essere una sorta di 'sottoprodotto' di un'elevata eccitazione sessuale. C'era anche l'ipotesi 'patologica', ma da questo punto di vista non si riesce a trovare una spiegazione per quanto riguarda i primati selvatici (forse è legata di più alla nostra specie).

Ma, in linea di massima, la masturbazione è un tratto adattativo che caratterizza tutto l'ordine Primates dopo la divergenza tra tarsi e aplorrine. Le ipotesi riguardanti una selezione postcopulatoria sono quelle citate nella sezione 'divulgativa', ed è composta da altre due ipotesi (o 'sottoipotesi'): 

-quella dell'eccitazione sessuale. La masturbazione maschile non eiaculatoria parrebbe accelerare la successiva eiaculazione avvantaggiando i maschi di "rango inferiore" che rischiano di essere sueprati da altri rivali. Questo è un tratto che accomuna molte specie animali, come per esempio nelle iguane marine (𝘼𝙢𝙗𝙡𝙮𝙧𝙝𝙮𝙣𝙘𝙝𝙪𝙨 𝙘𝙧𝙞𝙨𝙩𝙖𝙩𝙪𝙨). Nella nostra specie, è legato all'aumento della qualità dello sperma;

 -quella della qualità dello sperma. La masturbazione maschile espelle lo sperma inferiore migliorando la successiva 'qualità' dello sperma.

Come detto prima, si sa meno sulla masturbazione femminile, ma l'aumento del pH vaginale crea un ambiente più ospitale per lo sperma. La vagina filtra lo sperma e facilita il trasferimento di alta qualità verso l'utero. Le contrazioni associate all'orgasmo femminile possono migliorare il passaggio dello sperma attraverso la cavità uterina e le secrezioni associate di prolattina facilitando l'immissione dello sperma. 

Tutto questo deve essere anche associato alla durata dello sperma in termini di sopravvivenza all'interno del tratto riproduttivo femminile. Non si sa molto sui primati, ma nell'uomo lo sperma può essere ancora vitale per più di 5 giorni, pertanto sembra probabile che gli individui femminili possano sfruttare la masturbazione (pre e/o post copulatoria) come strategia per aumentare le possibilità di essere fecondate da un dato maschio (insomma, faciliterebbe la 'scelta' del partner o la scelta dello sperma di un individuo più interessante). Nei primati possono accadere episodi di 'copulazione imposta', quindi in questo modo non si rischia di rimanere incinte di individui indesiderati). 

Un'altra alternativa è che la masturbazione potrebbe fungere da 'esibizione precopulatoria', o come comportamento di corteggiamento in entrambi i sessi (un comportamento analogo all'"esibizione del pene" da parte degli scimpanzé maschi prima della copula).

L'altra ipotesi riguarda l'evitamento del patogeno, quindi la masturbazione parrebbe essere una forma di pulizia genitale postcopulatoria, che aiuta a prevenire infezioni sessualmente trasmissibili. Anche questa è una strategia utilizzata da molti mammiferi che si masturbano dopo l'accoppiamento, pulendo il tratto riproduttivo con l'eiaculato.

In generale, si possono considerare la masturbazione e la presenza di agenti patogeni nei maschi (e non nelle femmine) come una sorta di coevoluzione, cioè sembra esserci un legame tra l'aumento della pratica della masturbazione e l'aumento dei patogeni. Quindi, questa pratica svolge una difesa antibatterica per lo sperma una volta raggiunto il  tratto riproduttivo femminile (proteggendo anche gli ospiti).


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Le più antiche tracce di cannibalismo provengono dal Cambriano

Questa pratica è molto diffusa tra gli animali, ma è uno di quei comportamenti che in genere non riusciamo a dire quando sono comparsi. Ma i resti fossili ci aiutano a datarli, o meglio, retrodatarli.

Infatti, è stata rinvenuta la traccia più antica di cannibalismo, associabile ad una specie, o meglio, a due specie di trilobite (dopo capirete meglio): 𝙍𝙚𝙙𝙡𝙞𝙘𝙝𝙞𝙖 𝙩𝙖𝙠𝙤𝙤𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨, uno spazzino che si nutriva del cibo che trovava sul fondo dell'oceano e 𝙍𝙚𝙙𝙡𝙞𝙘𝙝𝙞𝙖 𝙧𝙚𝙭, un predatore, provenienti dall'Emu Bay Shale Konservat-Lagerstätte, Cambriano (Kangaroo Island, South Australia). 

La famosa "esplosione del Cambriano" rappresenta una grande ed improvvisa comparsa di un gran numero di phyla circa 500-550 milioni di anni fa circa. Comparvero un gran numero di animali, di prede e predatori che rendevano i mari a quel tempo abbastanza movimentati, ricchi di organismi dotati di morfologie/armamenti difensivi e offensivi.

In questo studio (che potete trovare nei commenti) vengono documentati individui feriti appartenenti a 𝙍. 𝙩𝙖𝙠𝙤𝙤𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 e 𝙍. 𝙧𝙚𝙭, per un totale di 38 esemplari feriti che mostrano varie lesioni cefaliche e toraciche guarite. 

Entrambe le specie mostrano che la maggior di queste lesioni si trovano sulla porzione del torace, e ciò mette in mostra un particolare comportamento preda-predatore:

I predatori che venivano attaccati, o le prede (in senso stretto), venivano attaccati maggiormente in questa regione perché, chi si difendeva (o chi scappava), mostrava il “ di dietro” (la parte posteriore del tronco). 

Insomma, questa era la parte più 'attaccata'. La particolarità è che non sono stati trovati individui di piccole dimensioni con lesioni, ma solo individui di grandi dimensioni. Questo vuol dire che gli individui piccoli venivano totalmente consumati durante un attacco, e anche che gli individui più grandi avevano più possibilità di sopravvivenza, quindi di resistere ad un attacco e mostrare delle ferite guarite.

Ma allora le tracce di cannibalismo? Come accennato prima, 𝙍. 𝙧𝙚𝙭 era l’unica specie in grado di ferire o mangiare gli individui, ma anche individui di 𝙍. 𝙧𝙚𝙭 presentano ferite da predazione, pertanto 𝙍. 𝙧𝙚𝙭 non era così schizzinosa, tanto da mangiare/attaccare qualsiasi trilobite capitasse a tiro.

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𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 è una specie che ha avuto origine da varie popolazioni africane (non da una soltanto)

E’ un titolo accattivante, lo so, ma non è sbagliato e riassume questa recentissima ricerca del 2023 (che potete trovare nei commenti). L'evoluzione umana, dal punto di vista genetico, alcune volte risulta essere un po' un casino ed è ciò che la rende molto interessante.

Sappiamo che avvennero accoppiamenti con 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 (è un esempio per fare capire certe dinamiche popolazionistiche), con il Denisova e con altre popolazioni di cui non sappiamo molto ancora. Ma, in un modo o nell'altro, sappiamo che la maggior parte degli accoppiamenti con altre popolazioni o gruppi avvennero dopo l'uscita dall'Africa della nostra specie, ma sembra che anche le antiche popolazioni di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 si accoppiarono con una popolazione..."fantasma". O meglio, con una non ancora 'scoperta'.

E' in primis una ricerca interessante in quanto di queste popolazioni non avevamo tracce fossili o genetiche, ma proprio per quanto riguarda quest'ultimo punto ora abbiamo qualche prova in più. Sappiamo che la velocità con cui cambia il DNA da una generazione ad un'altra ci permette di capire "chi è imparentato con chi", così le popolazioni che possiedono 'tratti simili' possono essere ricondotte ad un antenato comune.

Insomma, se le popolazioni non sono così distanti geneticamente, può capitare che le stesse possano produrre ibridi. In genere, nel nostro lignaggio si è verificato un fenomeno conosciuto come 'introgressione'. Vediamo brevemente di cosa si tratta. 

Sostanzialmente (cito questa breve frase come esempio) i gruppi Neanderthal-Sapiens si accoppiavano, producevano prole ibrida (solo in rari casi fertile), che a loro volta si riaccoppiava con uno dei parentali (maggiormente con il Sapiens ), permettendo così alla nostra specie di "rubare" geni neanderthaliani (e anche Denisovani). Indicando che tra le popolazioni vi era, saltuariamente, solo un piccolo scambio genico e non continuo.

Dopo aver fatto questo preambolo, che ha come scopo di riassumere certe dinamiche dal punto di vista biologico (i Neanderthal non c'entrano nulla in questa storia), più che doveroso, concentriamoci sono sulla nostra specie.

Gli autori asseriscono che i dati geologici possono aiutarci a capire come (e quando) le prime popolazioni di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 si accoppiarono tra di loro, quando si separarono per poi 'riunirsi'. Ci troviamo in un range temporale compreso tra 1.000.000 e 100.000 anni circa, quindi quasi a ridosso dell'uscita dall'Africa della nostra specie. I vecchi dati ci indicavano che i primi accoppiamenti con altri gruppi avvennero fuori dall'Africa. E' un range temporale caratterizzato da grandi cambiamenti climatico-ambientali (come i cicli glaciali), che hanno portato le varie popolazioni a separarsi, o ad espandersi in certi periodi temporali e in alcune nuove aree. Insomma, ogni popolazione isolandosi presenta nuove mutazioni, non condivise con le altre, e poi riaccoppiandosi dopo una "breve" separazione, le generazioni successive presentano caratteri “misti”.

Cosa ci dice la ricerca

120.000-135.000 anni fa circa, alla fine di un periodo glaciale che ha causato il 'passaggio' da condizioni fredde e aride ad un clima umido e caldo, le condizioni climatico-ambientali hanno spinto le popolazioni Sapiens verso la parte interna del continente. Grazie al modello elaborato dai ricercatori, essi hanno notato che in questo range temporale (il DNA ci può dire quando due popolazioni si sono separate o accoppiate grazie alle mutazioni che si accumulano nel tempo. E non solo!), due popolazioni umane si 'unirono'. Corrispondono agli antenati degli attuali Khoisan, un gruppo di popolazioni che vivono nell'Africa meridionale che mostrano una diversità genetica molto elevata.

In questi dati genetici sono stati aggiunti anche quelli della popolazione Nama (44 campioni), una popolazione perlopiù di pastori appartenenti ai Khoisan (della Namibia). Ecco, probabilmente questa popolazione si è isolata in Africa meridionale per diverso tempo, e la successiva 'fusione' tra le popolazioni hanno dato origine agli antenati degli odierni africani occidentali ed orientali. Alcune di queste popolazioni lasciarono l'Africa espandendosi negli altri continenti.

E il record fossile non dice nulla?

Diciamo che gli studi paleoantropologici, quando si affidano sia alla genetica che alla morfologia, ci restituiscono risultati più che soddisfacenti proprio perché queste branche si 'completano'. Infatti, questa nuovo approccio permette un'interpretazione per quanto riguarda "strani" fossili che presentano un mix di morfologie, sia derivate che arcaiche. Questi fossili sono stati rinvenuti in varie parti dell'Africa, ed uno di quelli presi in considerazione venne rinvenuto nel 1921 a Kabwe (Zimbabwe). Il cranio in questione presenta:

-una scatola cranica relativamente grande (una morfologia derivata in un cranio 'antico');

-e morfologie arcaiche, come la larghezza del viso e le massicce arcate sopraccigliari.

In sostanza, i primi individui di 𝙃. 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 non erano confinati in una determinata area geografica o identificati come un’unica popolazione, e le variazioni genetiche che tutt’ora sono presenti potrebbero essersi sviluppate e comparse solo in tempi più ‘recenti’. La prima diversificazione e divergenza tra le popolazioni odierne si verificò 120.000-135.000 anni fa circa, con quest’evento che venne preceduto dalla presenza di antiche popolazioni relativamente isolate e, successivamente, connesse attraverso ‘fusioni’ popolazionistiche tali da permettere il ‘flusso genico’.

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