martedì 27 febbraio 2024

Recensione: Ventimila specie (o quasi) sotto il mare, di Andrea Bonifazi

 




"Il Mediterraneo non è solo un patrimonio di inestimabile valore, è semplicemente la nostra vita, quindi proteggerlo non è un asettico dovere legislativo, ma una missione che dovremmo portare avanti anche per noi stessi."

 

Questa è una frase tratta dal bellissimo libro di Andrea Bonifazi, Dottore di Ricerca in Ecologia Marina e creatore e gestore della famosissima pagina Scienze Naturali. Mi trovo un po' di parte, poiché da Naturalista, cerco sempre di approfondire aspetti che non ho avuto modo di esplorare durante i miei studi. Devo essere sincero: conosco pochissimo l'ambiente marino odierno. Ho studiato qualche concetto di zoologia e paleontologia, concentrandomi soprattutto sull'evoluzione dei pesci e sui contesti geologici, oltre all'argomento della mia tesi triennale. Per questo motivo, ho cercato di liberarmi delle poche conoscenze acquisite nel tempo per poter gustare appieno questo libro. È stato come seguire un corso di formazione.

Solo l'introduzione vale il prezzo del libro; da qui, Andrea dimostra di essere un eccellente divulgatore. Credo che questo libro possa essere fonte di ispirazione per chi desidera entrare nel mondo della divulgazione scientifica. Andrea utilizza un linguaggio scientifico per spiegare concetti complessi, rendendo il discorso fluido e comprensibile anche per chi non ha mai visto il mare. Introduce frasi e discorsi realistici per rispondere a domande comuni come: come possiamo tutelare il mare? Potremmo scoprire nuove specie? Il libro affronta tutte le dinamiche del mare, sia dal punto di vista naturalistico che legislativo.

La frase citata all'inizio del post si trova a pagina 21, dove si affronta un problema cruciale: la tutela del Mar Mediterraneo, il "Mare nostrum". Questo non è scontato, poiché talvolta non ci rendiamo conto di vivere accanto a uno dei mari più ricchi di biodiversità. Gli ecosistemi marini sono complessi e soggetti a continui cambiamenti, spesso dovuti ai cambiamenti climatici. Questo può comportare la perdita di biodiversità, l'arrivo di specie aliene che competono con quelle locali e una serie di altre variabili naturali e antropiche che è importante conoscere e valutare con attenzione. Andrea è abile nel costruire un discorso lineare e piacevole, prendendo in considerazione tutte le variabili che caratterizzano un determinato ecosistema, senza confondere il lettore. L'autore analizza gradualmente tutti gli ecosistemi, partendo dalle dune fino ad arrivare agli abissi marini, rendendo la lettura come un'esplorazione diretta con lui.

I punti positivi del libro sono molteplici:

  • Ogni capitolo è accompagnato da una descrizione dell'habitat e della biodiversità circostante, semplificando la comprensione dell'argomento;

  • Nonostante sia impossibile descrivere tutte le specie che compongono un ecosistema in un unico libro, vengono presentate le più rappresentative, arricchendo così la conoscenza del lettore;

  • La capacità di descrivere e rappresentare le specie in poche pagine evita al lettore la necessità di ricorrere a ricerche esterne;

  • Il libro presenta strategie comunicative che evitano al lettore di impantanarsi nei concetti o nei discorsi complessi;

  • Andrea si comporta come un cronista, quasi come un naturalista "vecchio stampo" come David Attenborough, descrivendo eventi quasi in tempo reale.

Non trovo punti negativi in questo libro, se non il desiderio di avere ulteriori volumi simili, magari dedicati agli ecosistemi lacustri e fluviali, seguendo lo stesso stile di questo libro.

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mercoledì 21 febbraio 2024

Introduzione alla datazione in Paleontologia e Paleoantropologia: Metodi radiometrici ed Incrementali

Quando si studia un fossile, o comunque un reperto antico, si pongono sempre due domande: la prima è "da dove viene", mentre la seconda è "ma quanto anni ha"? Sono le domande essenziali per riuscire a dare una collocazione spazio-temporale al reperto, altrimenti senza di esse sarebbe impossibile avviare qualsiasi tipologia di studio. Il tempo è un fattore fondamentale nel campo evoluzionistico perché ci permette di capire quando un organismo è comparso (nel record fossile), ed ipotizzare tutti i processi che caratterizzavano la vita di un organismo, come per esempio capire quando è vissuto, e se è vissuto contemporaneamente ad altre specie.

Esistono tanti metodi di datazione, ma in generale esistono 2 grandi categorie:

  • Datazione/cronologia relativa. Riguarda perlopiù l'ambito sedimentologico e ne parlerò in un articolo apposito.

  • Datazione/cronologia assoluta, serve per datare i fossili ed eventi accaduti anche prima, durante e dopo la comparsa dell'organismo studiato. Serve a disporre in sequenza i vari eventi, indipendentemente dall'età reale del reperto studiato, e ciò permette di capire se un contesto geologico è continuo o discontinuo e se sono avvenuti certi mutamenti ambientali, oltre al fatto che la datazione assoluta richiede una certa quantità di tempo affinché possa essere quantificata e misurata, il più delle volte il tutto è aiutato dai cosiddetti "fossili guida".

I metodi, invece, si dividono in: 

  • Radiometrici. Studia l'abbondanza di un determinato isotopo radioattivo ed i suoi "prodotti di decadimento";

  • Incrementali. Si basano sull’accumulo regolare di materiale biologico o di materiale sedimentario;

  • Makers stratigrafici. Stabiliscono l’equivalenza dell’età.


I metodi radiometrici

 Questo metodo si basano sull’abbondanza di un determinato isotopo radioattivo e dei suoi prodotti di decadimento, che decade secondo tempi ben precisi permettendoci di datare. Prima di spiegare ogni tipo di metodo di datazione radiometrica, dobbiamo soffermarci su su alcuni termini e definizioni di chimica e fisica presenti nella seguente immagine (non spaventatevi!).

C è il simbolo dell'elemento, A il numero di massa e Z il n. atomico

Questo metodo si basa sulle proprietà radioattive di alcuni isotopi instabili che subiscono un cambiamento dell’organizzazione atomica, spontanea, per acquisire una forma atomica più stabile. Facciamo il ripasso dei seguenti termini:

  • Numero atomico: è il numero di protoni in un atomo.

  • Peso atomico: somma delle masse di neutroni e protoni.

  • Numero di massa atomica: somma del numero di neutroni e protoni.

  • Isotopo: specie atomica di un elemento in cui varia il numero di neutroni, modificando di conseguenza il numero di massa atomica.

Il nucleo è costituito da protone e neutroni, legati tra di loro, mentre attorno al nucleo si muovono gli elettroni. Il numero di protoni e neutroni è in genere stabile fino a quando il numero di neutroni diventa elevato o troppo poco elevato (particella instabile), aumentando le forze repulsive tra le particelle dello stesso segno (negativo con negativo, o positivo con positivo) superando la forza di coesione che teneva unite le particelle. Questo evento dà luogo ad un rilascio spontaneo di energia o particelle che sta alla base della radioattività. Vengono rilasciate:

  • Particelle alfa: consistono in 2 protoni e 2 neutroni(nuclei di elio carichi positivamente che scontrandosi con le particelle circostanti acquisiscono elettroni per formare l’elio gassoso). La loro emissione cambia il numero atomico;

  • Particelle beta: sono elettroni carichi negativamente e la loro emissione non cambia la massa ma il numero atomico. Quindi l’elettrone può spostarsi tra un’orbita ed un’altra, oppure persino trasferirsi nel nucleo che entrerà in uno stato sovraeccitato emettendo raggi gamma;

  • Raggi gamma: donano proprietà termoluminescenti ai minerali.

Decadimento radioattivo. Dopo aver rinfrescato la mente con questi termini, procediamo con la conoscenza del decadimento radioattivo. È un processo fisico-nucleare nel quale alcuni nuclei atomici instabili, o radioattivi, si trasformano (decadono) in un certo periodo di tempo chiamato tempo di decadimento, producendo nuclei con energia minore e raggiungendo così uno stato di maggiore stabilità. Esamineremo più nel dettaglio il decadimento attraverso i vari metodi.

  • Il radiocarbonio (o carbonio-14) è probabilmente uno dei metodi più conosciuti che ci permette di datare reperti antichi fino a 40.000 anni (in certi casi anche 60.000 anni). Si forma negli strati della troposfera e della stratosfera da neutroni di azoto. Il C-14 può decadere (quindi trasformarsi di nuovo) in azoto-14, ed il tempo di dimezzamento è di 5730 anni. Gli atomi di C-14 vengono ossidati in CO2 e mescolati assieme ad altre molecole di anidride carbonica nell’atmosfera per essere assorbiti dagli esseri viventi e dagli oceani. Se l’organismo è vivo, il C-14 viene rimesso in circolo, altrimenti rimane all’interno dell’organismo nel caso della morte dello stesso. Non venendo rimesso in circolo, il C-14 decadrà all'interno dei tessuti organici o mineralizzati, calcolando l’età di morte dalla residua attività del C-14. Con il Carbonio-14 esistono due metodi di datazione:
  1. La datazione tradizionale al radiocarbonio, in cui si contano e si registrano le particelle beta emesse dagli atomi di 14-C in un dato periodo di tempo;
  2. La spettrometria di massa con acceleratore, che usa acceleratori di particelle come spettrometri di massa per contare gli atomi di C-14. Cambia dal primo metodo in quanto non si contano i numeri di prodotti dovuti al decadimento.

Il radiocarbonio ha una vita media di quasi 8300 anni e un tempo di dimezzamento di 5700 anni; è un isotopo radioattivo. Quando studiamo il Carbonio, ci interessano tre isotopi: il 12-C (comprende una concentrazione di circa il 99%), il 13-C (1%) e il 14-C (una concentrazione davvero infinitesimale). Se vogliamo entrare un po' nel dettaglio, tutti e tre gli isotopi possiedono Z=6, mentre il 12-C ha 6 neutroni, il 13-C 7 e il 14-C 8. I primi due sono isotopi abbondanti e stabili, mentre il 14-C è instabile. Dopo aver accennato a queste informazioni, possiamo parlare di un fenomeno che forse conoscete un po' tutti: il decadimento radioattivo. In parole povere, un atomo si trasforma in un altro atomo, radioattivo o stabile, e questa trasformazione è molto probabile quando un isotopo è instabile. Si può avere una sorta di 'curva', proprio perché il decadimento è esponenziale, e ciò è visibile nell'immagine che vedete qui sotto.

Fonte: Wikiversity

Questa curva può essere spiegata con alcune formule matematiche. Bisogna tenere conto che, essendo un decadimento esponenziale, si ha un'equazione differenziale per il calcolo della quantità di 14-C, indicata con N (N con 'o' significa quantità iniziale, mentre con 't' si indica la quantità odierna). In genere, se si conosce o si usa un parametro stabile, la quantità da calcolare di 14-C è quella 'odierna'.

dN/dt = - λN

Aggiungiamo anche altre integrazioni:

N(t) = N(0)e-λt

Possiamo scriverla così

N(t) = N(0)e-t/τ

Dove

λ = probabilità di decadimento

τ = vita media

T1/2 = tempo di dimezzamento (il tempo dopo il quale il numero di isotopi di un dato elemento risulta essere la metà del numero iniziale: T1/2).

Le vite medie possono essere brevi o lunghe, e ciò dipende dalle proprietà chimico-fisiche dell'elemento (e da altri parametri).

A che serve sapere ciò che abbiamo appena detto? Sembrano dei concetti complessi esposti senza un'apparente connessione, ma in realtà ci permettono di comprendere meglio il processo di formazione, trasformazione e arrivo del carbonio-14 sul nostro pianeta. Per prima cosa, bisogna ricordare che il carbonio-14 ha una vita media di 8270 anni, e la "popolazione" di questo isotopo viene rifornita dai raggi cosmici, costituiti da protoni ad altissima energia, che interagiscono con azoto e ossigeno nella troposfera (16-20 km) attraverso reazioni nucleari, emettendo neutroni. Come suggerisce il nome, questi neutroni sono 'neutri', quindi non reagiscono in alcun modo ma possono collidere con il nucleo di un elemento, rallentare e perdere energia. Una volta che hanno perso energia sufficiente, possono reagire con l'isotopo 14-N (azoto) e formare nuovamente 14-C. Sì, sono stato impreciso in precedenza a non menzionare che questo fenomeno di "dimezzamento", o di 'decadimento', comporta la trasformazione del 14-C in 14-N, un elemento con energia inferiore.

Tempo di dimezzamento legato agli isotipi del Carbonio e dell'azoto

Cerchiamo di essere sintetici in questo paragrafo analizzando i punti salienti su ciò che riguarda la datazione del Radiocarbonio:

  1. Si ha un perfetto equilibrio tra isotopi che rinascono e muoiono in quanto, come detto prima, i raggi cosmici riforniscono la popolazione dell'isotopo di protoni ad altissima energia;
  2. Ciò che abbiamo appena letto, che riguarda l'interazione tra neutroni e 14-N, avviene solo in atmosfera (troposfera) in quanto in neutroni non riescono ad arrivare sul suolo terrestre;
  3. Si formano moltissimi 14-C, che si uniranno all'O2 che, essendo un gas, riesce a diffondersi un po' ovunque (naturalmente, avete già capito che parliamo della CO2);
  4. I moti convettivi dell'atmosfera sono relativamente veloci, quindi in ore-pochi giorni il nostro 14-C riuscirà a distribuirsi un po' ovunque sul nostro pianeta (non in modo omogeneo, ma ne parleremo dopo);
  5. Una volta giunto sulla terra, il 14-C (legato all'O2 come CO2), entra a far parte dei meccanismi metabolici degli organismi. Quindi, viene assunto dalle piante e queste verranno mangiate dagli animali con una dieta prevalentemente erbivora (anche se non esiste una dieta ben delineata nel mondo animale, ma ne parleremo in un prossimo post), che a loro volta verranno mangiati da altri animali. 

 In questo modo il 14-C riesce ad arrivare ai cosiddetti 'carnivori', con il cibo che compensa la perdita del decadimento radioattivo. Con la morte (questo punto è importantissimo per la datazione), il 14-C non è più compensato perché nei cadaveri decade e diminuisce secondo tassi ben precisi, e rimangono solo gli isotopi stabili (come il 12-C e il 13-C). Quindi, tutto sommato, ci basta mettere in relazione la quantità 'odierna' 14-C di un elemento studiato con il 12-C per sapere la concentrazione attuale, appunto, di 14-C, che ci permette di capire da quando un organismo è morto (questa tecnica, per essere un po' rompiballe, non misura quanto è antico un reperto organico, ma indica da quanto tempo è morto)Naturalmente, le operazioni sono più complesse di quanto ci si possa immaginare, questo perché non sempre si conoscono le concentrazioni inziali di 14-C, con la conseguenza che si fanno assunzioni perlopiù schematiche in quanto l’età del radiocarbonio convenzionale non coincide il più delle volte con la migliore stima dell’età, che andrà corretta sempre. Vediamo alcune problematiche: 

  1. Si utilizza un valore convenzionale di 1.18 x 10-12 pmc come 'concentrazione iniziale'. Alla fine dei nostri conteggi, seguendo anche altri studi, si "aggiusta il tiro" con tecniche di calibrazione (che possono variare da studio a caso a caso);
  2. La concentrazione di 14-C è diversa a seconda della latitudine e della longitudine. Per esempio, la formazione di quest'isotopo è 5 volte maggiore al Polo superiore rispetto all'Equatore. Questo perché al Polo le traiettorie dei raggi cosmici vengono deflesse dal campo elettromagnetico. Inoltre, l'atmosfera circola molto velocemente e di conseguenza in almeno un mese le concentrazioni all'Equatore e al Polo si mescolano. C'è da aggiungere, giusto per complicare la situazione, che si hanno pochi rimescolamenti tra i due emisferi, questo perché le perturbazioni in genere non superano l'Equatore;
  3. La concentrazione di 14-C non è mai stata uguale, sia per via di fenomeni antropici che naturali: Può variare il flusso dei raggi cosmici (per via di cicli dell'attività solare); Le eruzioni vulcaniche non ci aiutano molto in quanto si ha un effetto simile a quello di Suess; Si ha il cosiddetto "effetto Suess", strettamente legato all'evoluzione industriale. Nell'Ottocento è stato bruciato carbone fossile che conteneva 14-C milioni di anni fa, ma bruciandolo è stata rilasciata solo CO2 senza il 14-C, e questo effetto ha abbassato la concentrazione di quest'isotopo; I test nucleari (durante la Guerra Fredda tra il 1950 e il 1960) hanno liberato enormi quantità di neutroni, liberando così una grossa quantità di 14-C (per questo non si datano reperti relativamente recenti, e già la datazione di reperti medievali sta diventando complessa. Ne parlo nella sezione 'approfondimenti'); Nelle acque marine non si ha la stessa concentrazione di 14C dell’atmosfera in quanto l'aria "gira" più velocemente, mentre nelle acque marine i moti sono più lenti, quindi la CO2 decade. Un pesce morto da qualche secolo ha/avrà meno 14-C rispetto ad un animale terrestre, e secondo le tecniche di datazione un pesce appena morto risulterebbe deceduto da 200-300 anni. Un effetto simile a quest'ultimo si verifica nei fiumi o nelle acque lacustri, questo perché possono essere presenti calcari privi di 14-C.

Quindi, in conclusione, l'età del radiocarbonio convenzionale non coincide con la migliore stima dell’età, che andrà corretta con altre tecniche "storiche", come la dendrocronologia (la conta delle cerchie degli alberi). 

Come si misurano le concentrazioni di 14-C? In generale si mette in relazione le quantità 14C/12C (da cui si ha la cosiddetta età convenzionale), come anche il 13-C perché si sa che la quantità è rimasta la stessa, mentre quando un organismo muore il 14-C decade e diminuisce la concentrazione. Quindi, tutta quest'operazione prevede ri-calibrazioni e la misura più precisa possibile della concentrazione di 14-C, in quanto da essa dipende l'età convenzionale. Per concludere, possiamo dire che per T=8300 anni, se si fa 1% sulla misura di concentrazione del 14-C, l'errore assoluto è di 80 anni. Se faccio misure fino allo 0,5%, l'errore assoluto sull'età convenzionale sarà di 40 anni circa. 

Eccovi uno schema riassuntivo sullo svolgimento della formula:




Errori assoluti, e la necessità di aggiungere il termine "circa" quando parliamo di datazioni in un articolo divulgativo. In questo piccolo paragrafo, spero, conto di risolvere un annoso problema che riguarda l'utilizzo delle date/datazioni quando si parla di reperti antichi. Dopo aver letto tutta la roba che ho scritto prima, in un modo o nell'altro, avrete capito sicuramente che quando si fanno queste misurazioni un minimo di errore c'è sempre. Magari è dovuto alla strumentazione, magari alla mancanza di alcuni dati, ma non saranno mai misure 'perfette'.

Fonte: International Commission on Stratigraphy

Ecco, come potete vedere nell'ultima immagine, le datazioni sono accompagnate da un range di errore. Cioè, sicuramente in quell'intervallo di tempo (indicato da + e da -) ci sarà il reale valore, ma la strumentazione a nostra disposizione non riuscirà mai a dare un risultato assoluto, tranne in alcuni casi dove il range è davvero infinitesimale. Per esempio, in Calabria, esiste la famosa 'Vrica', un riferimento stratigrafico che rappresenta una datazione quasi assoluta e con un margine di errore davvero minimo (ma, come potete vedere dall'immagine, anche ISPRA inserisce il 'circa' dopo la datazione (questo perché un minimo di errore ci sarà sempre e comunque)).


Qui entriamo nel mondo della statistica, ma vi parlerò brevemente solo dell'Errore assoluto attraverso un'immagine, così da capire cosa sono quei "+" e "-" dopo l'età.


201.4 milioni è la media di un'infinità di calcoli che ha portato a questo risultato, e 0.2 milioni (o duecentomila) è il range di errore/l'intervallo di tempo nel quale è possibile trovare tutte le misure effettuate. Diciamo che i valori misurati si aggirano tra il valore minimo (201.2) e un valore massimo (201.6), ma non è assolutamente 201.4 milioni la reale datazione ma soltanto la media. Il dato reale? Non possiamo saperlo, ma sappiamo che si trova in quell'intervallo, per questo più di così non si può essere precisi (nemmeno con il radiocarbonio. Anche se studia reperti 'recenti', la quantità di 14-C non è mai la stessa e tutto ciò implica sempre una certa approssimazione, minore o maggiore, che dipenderà dai dati a disposizione e dagli strumenti analizzati). Quindi, cercate di utilizzare il termine "circa" quando parlate di datazioni. Non fa schifo, e non c'è da vergognarsi.


"Houston. Abbiamo problemi di datazione con il radiocarbonio" (Per la fonte, clicca qui. Lo studio è del 2022). Il metodo del C-14 (carbonio 14, un isotopo del carbonio), o del radiocarbonio, è una delle tecniche di datazione più famose ed utilizzate, che permette di stimare la "quantità", o meglio l'abbondanza di vari isotopi stabili e comuni (C-12 e C-13) che vengono relazionati con quella del C-14, che tende a diminuire dopo la morte di un organismo. Questo perché, in vita, assorbono queste tipologie di carbonio, mentre con la morte non vi è più un ricambio del C-14, che rimarrà intrappolato nell'organismo, o nel reperto, diminuendo nel tempo. Il tempo di dimezzamento medio (o emivita) del C-14 è di circa 5700 anni, e in parole povere possiamo datare reperti antichi massimo fino a circa 50.000 anni: minore è il rapporto di C-14, e più è antico un reperto.


Naturalmente, l'abbondanza del C-14 varia nel corso del tempo, a causa di eruzioni vulcaniche o della latitudine, pertanto è necessario ricalibrare sempre gli strumenti per ottenere la stima più precisa possibile. Ma questo pone un limite: è impossibile datare reperti recenti, soprattutto a partire dall'inizio della Rivoluzione Industriale. Di conseguenza, la datazione al carbonio è sempre più "ostacolata" dall'aumento delle emissioni dei combustibili fossili, poiché questi rilasciano velocemente CO2 che non contiene 14-C. E non solo, tra il 1952 e il 1962, i test nucleari hanno praticamente raddoppiato la quantità di C-14, tanto da aver assorbito il carbonio dall'oceano e dagli esseri viventi.

Ma questo lo sapevamo già. Ma, qual è la novità?

A partire dal 2021, gli effetti appena citati sembrano essersi "annullati a vicenda", e questo comporta che il C-14 che può essere rinvenuto negli odierni materiali è lo stesso di quelli del periodo preindustriale. Considerando anche che i combustibili fossili vengono ancora bruciati, la quantità di C-14 nell'aria tenderà a diminuire. Questa 'simulazione del passato' renderà problematico datare i reperti più recenti. Le previsioni non sono delle più rosee: si prevede che entro il 2050 il rapporto di C-14 sarà simile a quello del Medioevo (V-XV secolo). Di conseguenza, in futuro, le tecniche di datazione al radiocarbonio potrebbero far sembrare reperti recenti più antichi, magari proprio appartenenti al Medioevo, proprio perché potrebbe non esserci più distinzione tra il presente e il passato in termini di abbondanza per quanto riguarda il C-14.

lunedì 22 gennaio 2024

La pelle dei rettili e degli anfibi

Gli anfibi possiedono un tegumento particolare e differente da quello dei pesci. Basta osservare la pelle di qualsiasi rana per notare che è liscia e umida. La differenza principale risiede nel fatto che gli anfibi, come tutti i vertebrati terrestri, sintetizzano la cheratina, una proteina insolubile in acqua che ricopre la superficie esterna dell'epidermide. A differenza dei rettili, tuttavia, lo strato di cheratina forma uno strato corneo molto sottile, consentendo agli anfibi di evitare l'essiccazione della pelle, proteggersi dalle abrasioni e permettere la respirazione cutanea, alternata alla respirazione polmonare, poiché i polmoni non vengono utilizzati a temperature molto basse. Questo meccanismo rappresenta un efficace modo per conservare energia. La parte esterna viene periodicamente persa (desquamazione), e questa perdita è controllata a livello ormonale. È stato osservato nei rospi a cui è stata esportata l'ipofisi che la muta non avviene e le cellule cheratinizzate continuano ad accumularsi. Durante la stagione degli accoppiamenti possono comparire cuscinetti cheratinizzati sugli arti anteriori dei maschi di rane o salamandre, i quali aiutano il maschio a tenere ferma la femmina durante l'accoppiamento, per poi essere persi e riacquistati successivamente nel prossimo periodo degli accoppiamenti.

Le ghiandole unicellulari molto abbondanti nei pesci sono assenti negli anfibi; in compenso, sono presenti una moltitudine di ghiandole pluricellulari alveolari che si infossano nel derma. Queste ghiandole secernono un muco che protegge la superficie della pelle, evitando la dispersione dell'acqua. Altre ghiandole presenti sono quelle granulose, le quali secernono sostanze tossiche per la difesa contro potenziali predatori. Ad esempio, la ghiandola parotide dei rospi, che forma un rigonfiamento dietro l'orecchio, secerna una sostanza irritante che scoraggia i predatori entrati in contatto con essa.

Le scaglie ossee sono presenti, ma sono di piccole dimensioni e vengono chiamate osteodermi. Questi osteodermi sono presenti nel derma dei tetrapodi e sono andati persi nella maggior parte degli anfibi. L'osteoderma più comune tra i tetrapodi primitivi era di dimensioni più grandi ed era incorporato nel cinto pettorale come interclavicola.

La pelle dei rettili inizia a differenziarsi notevolmente da quella degli anfibi poiché lo strato corneo cheratinizzato è spesso (come nei coccodrilli) e distribuito in strati. Di conseguenza, le cellule formano piastre cornee nelle tartarughe e squame cornee nelle lucertole e nei serpenti. La cheratina si lega ai fosfolipidi, consentendo di ridurre le perdite d'acqua. I rettili perdono minori quantità d'acqua per evaporazione attraverso l'epidermide rispetto agli anfibi.

L'epidermide dei rettili è abbastanza complessa. Nelle lucertole e nei serpenti, la squama è generalmente composta da vari strati di cellule: quelle esterne sono cheratinizzate (quindi morte) e quelle interne sono ancora vive, con la squama immatura che si trova nella zona in cui le cellule sono ancora tutte vive e che sostituirà quella superficiale. Il cambio delle squame avviene tutto in un colpo solo attraverso un processo chiamato 'ecdisi' (muta). Durante la muta, si forma una zona di separazione tra le cellule vive e morte, permettendo la perdita contemporanea di tutte le squame anziché una per una. Le nuove squame sono già presenti e formate prima del cambio.

Nelle tartarughe, le piastre cornee non vengono cambiate come descritto precedentemente, ma viene ricambiata solo la superficie che si consuma. Man mano che cresce, un nuovo strato corneo si forma sull'estremità del margine della vecchia squama, originando una serie di anelli concentrici lungo il suo margine. Esistono vari tipi di squame modificate per svolgere varie funzioni particolari:

  • Nei gechi, le squame sono presenti sui polpastrelli e sono costituite da strutture filiformi (sete) che sviluppano, con le superfici con cui vengono a contatto, forze di adesione di tipo molecolare. Queste strutture consentono loro di scalare soffitti o pareti verticali;
  • Nei serpenti, le squame sono totalmente diverse poiché si posizionano anche ventralmente e svolgono un ruolo nella locomozione. In generale, le squame dei serpenti sono di tipo embricato, sovrapponendosi ed appoggiandosi l'una sull'altra;
  • Nelle tartarughe e nei coccodrilli, le squame sono appiattite e svolgono una funzione protettiva, fungendo quasi da scudo (si chiamano, appunto, "squame a scudo").

Un altro prodotto cheratinico presente nei rettili è l'artiglio, che avvolge le falangi e aiuta l'animale a fare presa durante la locomozione. Tutti i rettili forniti di arti li possiedono, e si formano dallo strato germinativo dell'epidermide, mentre la durezza è dovuta all'infiltrazione di sali di ioni calcio nella cheratina. Nella pelle dei rettili, non sono presenti organi di senso, fatta eccezione per le fossette apicali, delle strutture che si trovano in prossimità delle squame e sono organizzate in numeri variabili da 1 a sette. Ogni fossetta possiede un filamento simile a un pelo, svolgendo una funzione tattile. Nel derma sono completamente assenti le ghiandole mucose, mentre sono presenti poche ghiandole odorose, che intervengono durante il corteggiamento. Molti squamati, come i camaleonti, possiedono la capacità di cambiare i colori grazie alla presenza di cromatofori nel derma. La diversa colorazione è sotto il controllo dell'adrenalina e dell'innervazione simpatica.


Tipica pelle di un coccodrillo


Immagine di una rana toro

Approfondimenti

Le iguane "rosa" delle Galápagos (Conolophus marthae) e lo studio in generale sul tegumento delle iguane (2022). No, non è uno scherzo o un'immagine modificata al PC quella che vedrete alla fine del paragrafo, poiché queste iguane esistono ed sono anche molto rare. Sono state formulate molte ipotesi sul colore della loro pelle; ad esempio, si pensava che il colore fosse legato al sangue o a una mancanza di pigmentazione cutanea. Questa ricerca, però, apporta un po' più di chiarezza grazie a uno studio mirato sul tegumento di questi fantastici animali.

Si tratta di un animale che può raggiungere i 100-120 cm di lunghezza, con il DNA mitocondriale che indica un periodo di circa 5,7 milioni di anni nel quale si originò questa specie, ben prima della formazione dell’arcipelago delle Galápagos, dove attualmente vive. Si ipotizza che sia arrivata lì attraverso "zattere" naturali nelle isole che componevano originariamente l’arcipelago. Per la precisione, questa specie vive esclusivamente sull'isola Isabella, nei pressi del vulcano Wolf.


Eruzione in atto del Vulcano Wolf. Fonte: Charles Darwin Foundation


Sono state confrontate le tre specie di iguane dell'arcipelago, ed è emerso che le aree rosa di questa particolare specie sono prive di cellule pigmentate, come i melanofori; al contrario, il tessuto dermico risulta essere ricco di aggregati capillari confluenti. Le iguane marine e gialle non presentano questa condizione, poiché lo strato dermico è caratterizzato dalla presenza, appunto, di melanofori. A livello istologico cambiano le disposizioni del derma: l'epidermide (la parte superficiale della pelle, per intenderci) è composta da uno strato corneo ed uno granuloso ricco di lipidi che diminuiscono la permeabilità, e uno strato germinativo che si origina a partire dai cheratinociti. Inoltre, la parte inferiore del derma è costituita da uno strato lasso ed uno composito piatto. In generale, si può affermare che tutte le specie possiedono squame che si originano dal derma e si cheratinizzano esternamente, prevenendo così l'essiccamento. O meglio, più sono cheratinizzate e più efficacemente prevengono l'essiccamento.

La pigmentazione è influenzata da quattro cromatofori dermici (cellule pigmentate): i melanofori (bruni e neri), iridofori (iridescenti), eritrofori (rossi e arancioni) e xantofori (arancioni e gialli). I melanofori risiedono anche nell'epidermide come nei mammiferi, ma sono meno abbondanti nel derma. Nelle iguane marine, lo strato epidermico germinativo granuloso è molto più spesso rispetto a quello delle iguane terrestri, e ciò potrebbe indicare differenze di habitat e nell'ecologia delle specie:
  1. Per le iguane marine, è probabile che abbiano un'epidermide spessa, la quale svolge una funzione nella diminuzione della perdita d'acqua, favorendo una buona termoregolazione. Vivono in ambienti freschi, come quelli marini (iperosmotico);
  2. Per le due specie terrestri, invece, possiedono un numero simile di strati cellulari nell’epidermide;
  3. In generale, tutte le specie di iguana delle Galápagos possiedono uno strato dorsale più scuro rispetto alla superficie ventrale. Quest’ultima non è generalmente visibile da altre iguane o dai predatori terrestri e non è una regione esposta direttamente al sole;
  4. Il colore “lattiginoso” sulla superficie ventrale del corpo delle iguane marine può essere interpretato come un adattamento che permette di ridurre la visibilità in acqua da parte dei predatori, mentre nuotano liberamente. In predatori "da sopra", potrebbero avere difficoltà a distinguere le prede di colore scuro dal colore "oscuro" dell’oceano, mentre "da giù", i predatori potrebbero non riuscire a individuare la preda perché il ventre permetterebbe di confonderle con il colore del cielo.

Insomma, questo lavoro è molto importante proprio perché fa luce sulla storia istologica della pelle di tre specie (su quattro) di iguana delle Galápagos, soprattutto per quanto riguarda quel “rosa” di C. marthae, che è dovuto al sangue che scorre negli abbondanti vasi sanguigni confluenti nello strato lasso, non “protetto” dai melanofori. La completa mancanza di cellule pigmentarie nello strato lasso provoca il colore rosa, grazie soprattutto ai grandi capillari molto simili a quelli dei mammiferi.

Ma quale vantaggio potrebbe fornire il colore rosa a questa specie a 1700 m di altitudine e in prossimità dell'Equatore?

In quelle zone, la radiazione solare è estremamente elevata, soprattutto in cima al vulcano, e l'esposizione prolungata potrebbe risultare dannosa. Il colore rosa sembrerebbe essere una sorta di "compromesso evolutivo", poiché potrebbe consentire alla specie di sostenere la sua potenziale crescita: un corpo di dimensioni maggiori potrebbe essere svantaggioso in determinati contesti, mentre gli individui di piccole dimensioni sembrerebbero non essere influenzati negativamente (non sono stati scoperti in precedenza). Gli individui di piccole dimensioni mostrano aree scure intervallate da altre di colore verdastro, ricche di iridofori (un tipo di cromatoforo), e tutto ciò consente alle cellule di riflettere e rifrangere le lunghezze d'onda, permettendo ai piccoli di mimetizzarsi. Questa caratteristica si perde negli individui adulti, come in C. subcristato. In conclusione, queste differenze macroscopiche potrebbero riflettere variazioni nell'ecologia e nell'habitat delle tre specie studiate.


Fonte immagine: Charles Darwin Foundation

domenica 10 dicembre 2023

𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨

 E se i nostri cari cugini Neanderthal non si fossero estinti?

Ok, è un titolo intrigante, ma un titolo del genere credo sia efficace per parlarvi di quest'articolo, pubblicato all'inizio di quest'anno, che si concentra molto sulle difficoltà che ogni tanto si presentano nell'assegnare determinati reperti a una data specie. Soprattutto se parliamo di 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙣𝙚𝙖𝙣𝙙𝙚𝙧𝙩𝙝𝙖𝙡𝙚𝙣𝙨𝙞𝙨 e 𝙃𝙤𝙢𝙤 𝙨𝙖𝙥𝙞𝙚𝙣𝙨 che condividono qualche carattere morfologico comune, come i denti.
Vennero trovati 13 denti permanenti, quindi già eruttati, nel sito La Cotte de St. Brelade sull'isola di Jersey, nello Stretto della Manica all'inizio del secolo scorso. È un sito del Paleolitico molto importante, che ospitò i Neanderthal tra i 250.000 e i 48.000 anni fa.
Questi denti vennero trovati nelle vicinanze di un focolare, in un livello associato alla cultura Musteriana.
Originariamente questi denti vennero associati al Neanderthal, ma il ritrovamento di un frammento di un osso occipitale ritrovato in una località vicina al sito, con una datazione minore di 48.000 anni fa circa, ha portato gli scienziati a ridescrivere il materiale ritrovato con lo scopo di fornire una descrizione aggiornata sulla probabile assegnazione morfologica.
Uno dei denti originali è andato perso, mentre un altro è stato identificato come 'non ominide'. I denti rimanenti sarebbero associabili a due individui adulti, ma la forma della cervice e l'assenza di tratti comuni con il Neanderthal suggeriscono che questi denti siano più affini al Sapiens. Le dimensioni della corona e della radice, assieme alla morfologia di quest'ultima, indicano che sono caratteri associabili al Neanderthal.
Che cosa significa tutto questo? Sembra che questi risultati facciano ipotizzare una doppia ascendenza, neanderthaliana e Sapiens. Non c'è nulla di strano, le due specie si accoppiarono anche 100.000 anni fa circa in Medio Oriente(e non solo), ma ciò che lascia un po' riflettere è che questi denti risalgono a 48.000 anni fa circa, una data che è comunque relativamente vicina alla presunta data di estinzione del nostro cugino.
Ora abbandoniamo il campo dell'oggettività per entrare in quello più speculativo. Il capo del progetto, Chris Stringer, evidenzia come ci siano molti tratti in comune tra le due specie, sia geneticamente che morfologicamente, e si pone il dubbio se effettivamente sia corretto parlare di 'estinzione del Neanderthal', affermando che in futuro ci saranno studi più approfonditi, basati sullo studio del DNA estratto dai denti per capire se effettivamente si trattava di specie diverse o se si trattava di una popolazione ibrida, con il Neanderthal che man mano è stato "assorbito"(geneticamente si intende, non come in Dragon Ball) dalla popolazione Sapiens, molto più numerosa.
Sarebbe quindi ancora corretto il termine 'estinzione' per il Neanderthal? Lo sapremo in futuro.

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giovedì 7 dicembre 2023

Paleopatologie nei vertebrati

 È un mostro? È un Cerbero a cui manca una testa? È il famoso mostro leggendario Idra? Niente di tutto questo, è semplicemente un caso di malformazione che ha colpito un rettile appartenente all'ordine Choristodera, un gruppo di rettili vissuto tra il Giurassico e il Miocene(160-20 milioni di anni fa).

Il reperto in questione proviene dalla formazione Yixian(Cina), datata al Cretacico superiore, una formazione molto famosa per il ritrovamento di fossili conservati in modo eccezionale di dinosauri piumati, e non solo. Il piccolo scheletro, è un coristoderano embrionale o neonatale che presenta due teste e due serie di vertebre cervicali(due colli), con la biforcazione che parte dal cinto pettorale.
Questa malformazione è nota come "biforcazione assiale", molto comune tra i rettili attuali con questo reperto che rappresenta, al momento, la prima testimonianza a livello fossile di tale malformazione dello sviluppo.
Questa malformazione avviene dalla scissione imperfetta di un singolo blastoderma, con l'embrione che non riesce a completare la suddivisione che normalmente porta alla formazione e alla nascita di due gemelli.
Si capisce che sono coristoderani embrionali, o allo stato neonatale, perché sono scheletri di piccole dimensioni(raggiungono a malapena i 70 mm di lunghezza), le orbite degli occhi sono molto grandi e le teste sono proporzionalmente grandi rispetto al corpo. Sono caratteri giovanili, ma la posizione rannicchiata suggerisce proprio che sia/siano stati embrioni al momento della fossilizzazione.


Fonte immagini:  live science e Journals of Royal Society. Per la fonte, clicca qui


Le diete sapiens e neanderthaliane

 La dieta a base di Omega 3 del Neanderthal

Prima si pensava che tra le specie umane, la nostra fosse l'unica ad avere anche una 'dieta marinara' ma, questa "recente" ricerca ha indicato che questo tipo di dieta non era estranea al Neanderthal.
Resti di cibi 'marini', infatti, sono stati trovati nella grotta di Figueira Brava, sulla costa atlantica del Portogallo. Si tratta di cozze, vongole, granchi, cefali e orate datate tra i 100.000 e 90.000 anni fa che rivoluzionano l'immagine che avevamo sui Neanderthal: non erano solo 'cacciatori di selvaggina' e abitavano lungo gli insediamenti costieri, proprio come il Sapiens.
Questa scoperta indica, inoltre, che la dieta del Neanderthal era quindi ricca di Omega 3 e di acidi grassi che favoriscono un buon sviluppo del cervello.
Vediamo "leggermente" nel dettaglio gli alimenti che sono stati rinvenuti nel sito:
-piccoli vertebrati, selvaggina e mammiferi marini. Sono presenti sia specie stanziali che migratorie, come denotato dalla presenza di molti uccelli marini che si riprodussero nelle vicinanze delle coste o sulle scogliere. In generale sono stati trovati anche resti di carnivori (circa il 4%), di animali di piccola taglia (i lagomorfi sono poco rappresentativi rispetto a quelli di selvaggina come cavallo cervo, ecc. che rappresentano l'89% dei mammiferi identificati) e di grande taglia, come orsi bruni e lupi (circa il 7%);
-dei "Sampei" provetti. Questi neanderthaliani vissero in prossimità di una costa rocciosa, dove raccolsero lì sistematicamente patelle, granchi e una moltitudine di pesce. Infatti, sono state ritrovate tante ossa e denti, per la maggior parte appartenenti ad anguille, murene e gronghi. Le anguille erano belle grosse, infatti raggiunsero anche i 30 cm di lunghezza;
-resti vegetali. L'87% del carbone identificato appartiene a Pinus pinea, e ciò denota che questa specie fosse utilizzata come combustibile, ma la maggior parte dei resti bruciati di pino sono gusci di noci e brattee. Venivano raccolti i frutti di questa specie;
-una moltitudine di crostacei. Sono stati rinvenuti resti appartenenti a vari generi: Bittium, Nucella, Tritia e molti altri. Sono stati utilizzati per creare ornamenti (molti gusci sono stati forati), ma venivano raccolti sistematicamente e ciò porta alla conclusione che venissero utilizzati anche in ambito culinario.
Cosa possiamo dire sulla dieta di questi neanderthaliani dell'ultima Interglaciale iberica? In sostanza, si nutrivano in modo simile agli esseri umani dell'Olocene mentre, per quanto riguarda la sussistenza in sé, erano sia cacciatori che pescatori (in ambienti soprattutto temperati). La raccolta sistematica di molluschi implica una grande conoscenza del mare e di tutti i fenomeni legati ad esso (come le maree) lungo il litorale portoghese. Ciò presuppone uno sviluppo cognitivo non di poco conto.

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